Dopo un lungo e tortuoso tragitto in pulmino (durato ben 10 ore), attraversando deserti di sabbia e di roccia, tra massi pericolanti e dune di sabbia che ostruivano la famosa Panamericana (la strada che collega l’Alaska al Cile), siamo finalmente arrivati alla città di Arequipa (2335m slm) dove abbiamo trascorso la notte pronti per la visita della città e sopratutto per iniziare gradualmente l’ascesa verso le Ande.
Questa città è situata in una bellissima e mite (nonostante qui sia inverno) pianura verdeggiante circondata da vulcani (non tutti inattivi) alti bel oltre i 6000m. Per questi motivi, nonostante l’altitudine, questa città non può certo esser considerata una località di montagna, anche se dopo qualche ora di passeggiate per il centro vi potrebbe mancare il fiato (più che altro per via dello shopping sfrenato alla ricerca di maglioni o sciarpe di pura alpaka 😛 ).
Arequipa viene anche detta “la città bianca”, non certo per la neve che a queste latitudini è presente solo sopra i 5000m, ma per alcune curiose ragioni storiche. La prima narra infatti che per combattere il degrado estetico dato da alcune case il cui intonaco non veniva manutenuto correttamente, fosse stata emanata una legge per rimuovere l’intonato da tutte le abitazioni, riportando così al bianco naturale della pietra l’intera città. La seconda invece riporta il motivo alla grandissima percentuale di popolazione spagnola anzichè Inca (e quindi di pelle chiara anzichè mulatta) presente nella città. Pur essendo infatti fondata dai guerrieri Inca che in discesa dalle montagne trovarono nella verde vallata fertile un ottimo motivo per fermarsi (Ari qhipay = fermatevi qui), la città è stata in un secondo tempo rifugio della popolazione spagnola che normalmente abitava le coste adiacenti la zona ma che fu costretta a fuggire a causa di un’epidemia.
E proprio la convivenza tra la popolazione indigena Inca e i conquistadores spagnoli ha dato vita ad una delle caratteristiche architettoniche più peculiari della città: lo stile meticcio. Con questo termine si indica la coesistenza nei luoghi di culto dei più classici simboli religiosi cattolici (croci, santi, angeli…) con i simboli legati alla religione panteista Inca quali fiori, piume, mais ed elementi naturali di ogni genere.
Per la popolazione Inca anche le montagne venivano adorate come dei. E la ragione era semplice da capire: i vulcani intorno alle loro città non facevano che esplodere in enormi eruzioni e grandi boati che sconquassavano letteralmente i pavimenti delle loro abitazioni.
Rispetto a tali potenze della natura gli Inca non potevano che vedersi come degli esseri inferiori e sono ricorsi quindi a qualsiasi mezzo nel tentativo di imbonire gli dei. Sicuri che questi esseri soprannaturali potessero esser quietati solo con il sangue, i capi Inca sono ricorsi addirittura ai sacrifici umani (in particolare, di bambini) le cui testimonianze impressionanti sono state ritrovate in diversi punti dei pendii dei vulcani intorno alla città.
Oggi invece la popolazione della zona è divenuta meno religiosa ma più fatalista. Consci dei rischi che corrono ogni giorno tra eruzioni vulcaniche e sismi catastrofici, vivono serenamente godendo della fertilità che solo la loro valle può dare e seguendo un unico mantra: nessuno muore prima della sua ora.
I Bobi